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mercoledì 9 novembre 2022

Giuseppe Martella


Porto franco - Giuseppe Martella - copertina


Ho sempre pensato che l’ispirazione a scrivere poesia contenga una sorta di rivelazione, una misteriosa comunicazione che dal poeta giunge al suo lettore.
Quando questo accade, ci si sente partecipi, avvolti da quella stessa aura d’ineffabilità che aveva suggerito al poeta il suo dire.
La poesia di Giuseppe Martella mi fa un incantevole effetto. È come se un respiro pronunciasse all’orecchio i suoi versi, quasi a trasmetterne uno speciale segreto.
In questi testi l’agilità sostiene la bellezza (categoria non sempre del tutto spiegabile, né confrontabile) e trasmette l’armonia in guizzi di colore imprevedibili, in un affascinante percorso poetico-filosofico che oltre alla vividezza d'immagini immediatamente fruibile dà altro significato al senso compiuto del vivere.
Sono poesie che inducono alla riflessione, come se si fosse messi di fronte a un paesaggio di cui prima non avevamo notato i particolari più importanti, così importanti che nello scorgerli appieno, ci comunicano ulteriore bellezza, pace, speranza.

cristina bove

                         

                       

                                   

Per ipotesi

Ma sì, ma quando, ma poi,
se tutti noi
fossimo presi per incantamento
e trasportati indietro e poi in avanti
fuori del tempo e dentro,
presi e sorpresi dai futuri istanti
indifesi
e prendessimo le cose con i guanti
al fine,
e oltre il confine dell’io ce le spartissimo
spezzando il pane insieme,
finalmente, dimenticando Iddio.
                 
                  
                       

                         GRAN CANARIA

Gran Canaria

Azzurro, azzurro
azzurro il cielo, trasparente è l’aria
dopo la pioggia rara del mattino
fine fine battente
la pioggia mattutina a Gran Canaria.
Azzurro azzurro che scema nel celeste
celeste il cielo
azzurro il mare, bianchi i cavallucci
riccioli bianchi, spuma sulla roccia
che scende sui tuoi fianchi
isola d’aria
la pioggia mattutina ti ha vestita a nuovo
nutrito ha il poco verde, che nella roccia
si perde e al mare mira diventando muschio
mischia l’aria col sale – e fischia una leggera brezza
sul celeste che rischia di annegare –
isola d’aria persa in mezzo al mare.

***
E la figura nell’ovunque luce
svanisce e si dà pace finalmente
si piega come il gambo sulla terra
– è passato un giorno, soltanto un giorno
è passato –
la terra tace, assorbe, riconduce
tutta l’acqua di luce alla sorgente
la terra riproduce fiori e frutti
e tutti quanti ritorniamo alla terra,
tutti ritorniamo alla terra dalla luce.

***
Celeste celeste blu blu celeste
bisogna mischiare i colori
prima di trovare la tinta giusta
celeste blu blu blu celeste
e sfumare sfumare dimenticare
annegare le forme nei colori
un sollievo per l’occhio e per la mente
la forma che si pente nella vita
e si smarrisce e sfuma –
buona fortuna a te, buona fortuna.

***

E così via, raccogliendo per strada
i lacci e le conchiglie e i ricci
gli stracci – le caccole dei cani
gli impicci fra ieri e domani
raccogliendo, scartando
facendo insomma le pulci alla vita
con le dita nude –
doloranti magari, gli occhi stanchi
davanti sempre a un mucchio di rifiuti
e quanti quanti sempre più davanti
sfaticati, stenti sulla strada
quasi sfiniti tutti, tutti quanti –
quasi arrivati, e neppure mai partiti.

***

Scogliere, sassi, sterpi sui dirupi
serpi, forse annidate
nei calanchi
l’isola mostra i fianchi scavati
le gengive dei denti
avvelenati dal cemento
e sento gemere piano le radici
dei radi alberi, zolle di verde
perse nel mare d’azzurro
chiaro scuro di mare e cielo
con qualche vena di ruggine
negli occhi, qualche stilla di sangue
nell’oro di conchiglia
nell’eco martoriata dei riflussi
delle maree, dei tremiti profondi
delle faglie
nelle aeree schermaglie degli alisei,
nell’antico rifugio degli dei.

***

Ogni macchia, lasciata sulla strada
intrisa di semenze
ogni cosa derisa, attende
di essere ripresa, condivisa
come un’ostia dissacrata,
attende di essere ancora una volta
spezzata, spezzata come pane
diluita, stinta, poi bevuta
tutta d’un sorso –
la macchia sul dorso della tua mano
il fuscello nell’occhio
e dire piano, e dire piano piano
sempre più piano dire
sempre più vano il tuo fletterti
in ginocchio (pregare)
la macchia densa
che sta fra il dire e il fare.

***

E prendi la misura, giusta finché ne hai tempo
e prendi il tempo a tua misura
magari a usura, prendilo a prestito
qui se è il caso – tanto
tutto è in affitto qui un tanto al mese
il sole l’aria il mare
il passeggiare così senza pretese,
silenzioso diletto, scendere giù dal colle
senza musica né donne né locali costosi
senza neanche voci quasi
se non quelle delle onde sulle rocce
dell’ultima caletta, della casa dei ricci
dove la tua ombra ti aspetta
in un canto, il solo riparato dal sole
e lì prendi il respiro delle onde
a tua misura – inali forte, trattieni il fiato
e fiuti l’aria a occhi chiusi
salsedine aria pura
misura del respiro, finché dura.

***

                      L’ORA BRUNA DEL PRESENTIMENTO

Le ore sono parole da non dire
e passano altrove e si
disfanno sempre l’una e l’altra
– l’ora bruna del presentimento –
come nube leggera dagli orli illuminati
arancio, rosso perché viene
perché viene sera prima o poi
nell’ora stessa come quando bussa
alla tua porta
il pellegrino sempre più inatteso
sempre più vicino che lo confondi
col tuo stesso profilo che passa
per la cruna dell’ago,
e sì foggia un angolo protetto
come una tortora che si fa un nido
di straforo
nel sottotetto della tua dimora.

***

Non ho parenti, sono solo al mondo
sono un bimbo strambo
perennemente in cerca di adozione
se piango canto la stessa canzone
di sempre –
e mi sovviene il tuo volto parente
madre dai tanti volti ormai dispersi
semicancellati, sovraimpressi occhi sbarrati
madre che urli dalla finestra e sbracci
e mi chiami –
di giudicare io non ho il diritto
il bene e il male che mi hai fatto.
Io sono qui per te natura che non mente
sono tuo figlio, qui, sulla soglia del niente.

***

Mi disse: tu mi piaci. Sposami.
Cavolo, dissi, ci debbo pensare!
Mi guardava fisso con gli occhi spalancati
e dentro gli occhi precipitava il mare.
Sì, d’accordo, sarai dunque mia sposa
– era spuma di vento –
capelli mossi fulvi dai riflessi cangianti
Le dissi sorridendo: io però sai devo partire
sempre
sposarsi sì vabbè si fa per dire,
ci incontreremo talvolta a mezza strada
tra nord e sud tra cielo e mare
e tanto basta no? Uno sguardo al volo
un cenno della mano – sognava
ad occhi aperti – Ci sposammo
in un giorno di sole intenso sul sagrato
di una piccola chiesa – arrivai in ritardo
lei mi attendeva ansiosa ma sorridente –
in ritardo poi lo sono stato sempre
E lei sempre mi ha atteso, paziente
la mia sposa.

***

Ci siamo già lasciati: ora mi dici
non ti conoscevo a fondo
anzi per niente,
ora ritorno,
sai, saremo felici. Ma
ti guardo e mi confondo
e che sarà mai codesta ombra
che mi molesta nel caldo mezzogiorno?
E poi chi se lo aspetta mai un ritorno
dopo tanto tempo!
Ho il forno acceso e mi si brucia il timballo
di riso con cura preparato da mia moglie
– ecco qui sta l’impiccio: le doglie della vita
i rami spogli, sparuti
stenti
che seguono al cadere delle foglie.

***

Andare e non andare: non capire
venire al dunque, poi perseverare
fuggire all’ultima ora
– ora è lo stesso –
e mi capita spesso quest’ora incerta
dove non so chi sono,
e non so a chi chiedo, se mai chiedo
per forza o per amore. Se
tu ci fossi, e se non fossi io,
chiederei perdono a te – perdono a Dio.



 Postfazione
di Rosa Pierno  


Attraverso la lettura della prima raccolta poetica di Giuseppe Martella, Porto franco, si scopre di essere entrati in uno studiolo degli esperimenti in cui le ipotesi, che sono già normalmente coltivate in un ambito di incertezza, sono, per sopraggiunta istanza sperimentale, anche immerse nella contraddizione. Ciò fa diventare la miscela esplosiva, ancor prima che sulfurea. Si tratta di ipotesi di lavoro tenacemente attaccate alle loro confutazioni come le peonie di mare allo scoglio: non pongono soluzioni che preve-dano la distinzione, l’operabilità della differenza. Designano un luogo non alchemico, che tuttavia produce l’affondo sui limiti del pensabile. Ne consegue che risultano nettamente delineati anche i profili delle aggettanti ombre in campo ludico. Codesta attitudine della poesia è irrinunciabile, essendo essa artificio. La poesia porta con orgoglio tale medaglia; ciò equivale a porre la sua ironica lungimiranza in bella mostra!
Ma per meglio intendere i termini della questione e la modalità con cui il poeta affronta tale tenzone, è necessario definire le due minacciose leve della tenaglia, ma anche gli stati d’animo in gioco. Le prime poesie, briose, allegre, di una sorprendente levità e ariosità, aventi sonorità rapenti, un certo ravvivato fischiare montaliano, indicano che la vita e la morte sono espresse all’interno dei cicli della rinascita. Le forme compiute si sfaldano in una giostra di nuovi inizi. Ad uno sguardo più ravvicinato, lontano dalle alte sfere, le cose appaiono come resti, rifiuti, inutili ingombri. Un tarlo buca l’areostato, le sensazioni (quelle sensazioni che Mach eleggeva come unico elemento da prendere in considerazione) divengono numericamente ingestibili: la spola istituita tra la sfera dei processi e quella degli oggetti produce dolore, il male di vivere. L’indivisibilità a cui accennavamo all’inizio fa parte di un pacchetto ingovernabile: non si può ordinare, non si può separare il bene dal male, non si può trovare un senso unitario che inglobi l’esistente. Se è vero che non sembra esserci alcun punto di contatto fra la meraviglia che il creato suscita e il «cartoccio di paranza fresca» del desinare e se persino la vita ritorna «secca e muta nei suoi argini», tuttavia non ha senso nemmeno separare l’afflato che comunque si prova per il cosmo e per la propria esistenza. In fondo, l’aria sembra essere, e vale per l’intera raccolta, un filo rosso: l’aria che ritempra e gli aperti spazi del cosmo che ridimensionano formano una sorta di oscillazione che ruota su un medesimo perno. Misura e dispersione procedono insieme.
Dal materialismo iniziale Martella giunge ben presto al recupero di ciò che è spirituale. Regge poco il materialismo delle prime fasi, della gioventù, la lucreziana danza degli atomi. Presto giunge il momento in cui pregare fa parte dell’oscillazione: «sempre più vano il tuo fletterti / in ginocchio (pregare)». La luce abbagliante si mostra in grado di chetare l’animo. D’altra parte, la morte non è esorcizzabile, anche se inserita in un ciclo «e spreme e preme alla bocca dell’anima / come un vuoto pulsante: la paura». Il corpo stesso viene vivisezionato e ricomposto «nei meandri di un labirinto / senza centro». Veri e propri miraggi di concerto con le sembianze polimorfiche di un io che risente del passaggio nelle varie età esistenziali fino ad assumere le forme della natura, la voce del mare. In questo senso, la raccolta si configura come un poemetto delle varie fasi della vita sullo sfondo della ciclicità co-smica. E diversa è dunque la voce iniziale, primaverile, aerea del-le prime poesie e quella dorata, e in svolgimento amorfo dell’età più matura.
In siffatto moto, il sistema linguistico è messo alle strette, non tramite una riduzione delle sue componenti poetiche, ma attraverso equivalenze e sostituzioni concettuali. Senza cioè sopprimere le potenzialità ritmico-intonazionali del verso, il lavoro poetico di Martella si svolge tramite la messa a tema di concetti culturalmente inseparabili: Dio-luce, colore-forma. Per ipotesi, è infatti una poesia che esplicita proprio tale teorema: quei sistemi di idee che tentano di narrare di Dio, («fuori del tempo e dentro», «oltre il confine dell’io») eliminando l’idea del divino che è associato ad essi, non suonano forse come svuotamento dei concetti che dovrebbero suffragare? Non determinano, cioè, l’annullarsi del secondo termine dell’uguaglianza? Ecco dunque che l’inseparabilità, solo apparentemente paradossale, è in realtà pienamente artificiale e giunge alla sua maggior altezza nel linguaggio poetico, lì vivendo interamente la sua complessità.
La possibilità di giungere a qualcosa, se mai sia possibile giungervi, è per Giuseppe Martella intimamente legata alla valorizzazione dei detriti esistenziali, concretissimi, come è estratta da beckettiana memoria. Da tale repertorio proviene quel gusto per le cose infime che fa scopa con il gusto per i segni: «ogni cosa derisa, attende / di essere ripresa, condivisa / come un’ostia dissacrata». La valorizzazione semantica è il luogo ove avviene lo scambio con la realtà, ove la macchia diviene senso, staccandosi definitivamente dal reale per andare a sistemarsi nella rete dell’artefatto culturale. Tuttavia, quello che si è costruito, anche faticosamente, finisce col reclamare a gran voce d’essere disperso: le forme sono da dissipare, quasi per un agognato ritorno a quel caos primigenio, ove regna l’indistinto o, meglio, in quel dondolio perenne tra terra e luce, laddove si osserva che la spola tra ciò che è materiale e ciò che è astratto è tessuta fittamente. Anche la sonorità soffusa, lieve, (mente-pente, sfuma-fortuna) che si rincorre tra ripetizioni lessicali, sostanzia l’impianto semantico. L’ef-usione intimista, una vera e propria ode al presente, ai suoi momenti concreti e fugaci, di cui la marca più certa e afferrabile sono i colori, quei bianchi, sfolgorati come un assoluto, quei verdi smaglianti dell’infanzia, quell’azzurro che dismette la propria forma, quell’effusione, dicevo, di marca affettuosa, vale certamente una riconciliazione con l’esistente.
E, pur tuttavia, è la sonorità che s’impone sull’immagine, nella lettura: «stanno / come faci, tremule, falci / tralci di vite, recise o quasi / i vasi dei fiori appassiti / nelle dimore vuote, o quasi». È nella volontà del poeta di sottolineare la specificità di una pratica che, in quanto costruita con parole, egli si propone di smerigliare al meglio, facendo tintinnare il lessico fino all’intersezione sonora. Con il suono, che fa intrinsecamente parte del senso, Martella costruisce al contempo il resoconto della sua vita, non nel mezzo del cammin, ma su un liminare confine dove si piega e ripiega, come una canna al vento, la possibilità umana di render conto dell’assoluta inconciliabilità dell’ordine cosmico e dell’ordine umano. E, tuttavia, come dicevamo, essi procedono fianco a fianco, 
inestricabilmente.
Non rimpianti, ma un accordo da stringere con se stesso, un dichiararsi soddisfatto al saldo, perché è giocoforza farlo, e così tenere a bada le insoddisfazioni che mordono il fianco: «da invisibili venti – e poi ce n’è sempre / uno che mi rode dentro / (un topo forse – forse un presentimento) / e non si acquieta / fra lacrime e sorrisi» tale da essere una dieta quotidiana, «quel codice prescritto / che mescola gli inferni ai paradisi». Non si tratta degli inevitabili rimpianti, dunque, ma della ricucitura, del completamento delle frasi non dette, mal intese, presupposte, tali che la loro consistente numerosità viene a formare un’esistenza dissimile, altra, da quella effettivamente vissuta. La memoria ricostruisce a suo piacere il dato esistenziale, rifondendogli nuova vita e piegandolo a nuove conformazioni. La splendida poesia sulle ore, che apre la seconda sezione, ha la grazia di rendere presente, per mezzo del ricordo, una rivisitata esistenza, ora finalmente intravista in quella vissuta, ma anche di renderla corpo visibile per i lettori, forgiando contemporaneamente un materiale modellabile al fine di saggiare le ipotesi, di visitare le strade non intraprese, di ripristinare ciò che è stato malamente interrotto. Ipotesi che riguardano il senso dell’esistere, proiettato nel cielo e da lì nuovamente rifratto sulla terra, come se il cielo fosse uno specchio ustorio. Le forze emanate da uno stato indeterminato, dubbioso, sembrano ritornare concentrate, capaci, oramai, di rendere il senso disperso un senso conclusivo.
Insomma, l’analisi svela un delirio prismatico che coinvolge l’io. L’ipotesi unitaria su scala macroscopica diviene un ologramma in cui si disfa il mondo. Intatto resta ciò che sfugge al poeta, ciò che lo sovrasta. Ma l’ipotesi iniziale tiene. La vita è stata vissuta e mille cicli sono presenti in una sola vita.
Nella bellissima Canone inverso si coglie appieno il senso dialogico dell’impostazione poetica di Giuseppe Martella, che nel suo traghettare inesausto di novello Caronte, che ancor non si dà pace per il trasporto da effettuare da una sponda a un’altra, vive i ricordi indistintamente dal presente, la morte come non differente dalla vita. Egli, ritorcendo i fili di quelle sue occorrenze quotidiane, che passerebbero altrimenti come un puro insignificante accadimento, le rifonde nelle trame, visive e sonore, delle sue dorate filigrane ove tutto si tiene.
 


lunedì 10 ottobre 2016

Alessandro Moscè




http://giotto.ibs.it/cop/cop.aspx?s=B&f=170&x=0&e=9788883092008
Avagliano Editore  (collana I corimbi)



Un libro che è un’autobiografia sui generis, che si sofferma sugli aspetti adolescenziali  dopo un momento tragico della vita di Alessandro: la malattia che ha condizionato la sua vita di bambino, ma che lo ha anche dotato di una sensibilità che solo chi ha sperimentato il dolore e la paura della morte imminente può comprendere.
Sono trascorsi trent’anni da quei momenti cruciali, anni che hanno sedimentato nei ricordi e che, finalmente, sono emersi in tutta la loro chiarezza, grazie anche a un incontro che gli ha reso possibile visitare i luoghi della sua sofferenza e a fargli vincere la reticenza a parlarne.
È una storia di vita vissuta con la consapevolezza di chi è sopravvissuto a qualcosa di terribile, ma anche ha beneficiato di incontri importanti che lo hanno aiutato a  superare la drammaticità di un evento dolorosamente incomprensibile per un bambino.
In questo nuovo libro, Moscè affronta il dopo, l’adolescenza con le sue pulsioni, ciò che lo ha portato a scrivere, e che gli ha dato l’opportunità di scandagliare l’amore, la passione per il calcio, la poesia, e l’affetto di chi gli è stato vicino. 



 cb





Incipit


Il ricordo dei natali degli anni Settanta è come una magia, dopo il 20 dicembre. Ma negli anni Ottanta, quelli della crescita fisica, non è stata più la stessa cosa. Fare l’albero, addobbarlo, non era un gesto incantevole. Alessandro lo sapeva e se ne rammaricava. Gli prendeva un groppo alla gola. Eppure la stella cometa di cartone era la stessa, come le sfere multicolore, le stelle filanti e il pino di plastica che si smontava. Ad accendere il passato era stato ancora una volta lo scantinato. Alessandro era sceso nella sua grotta, come la chiamava, ed aveva aperto lo scatolone del Natale chiuso con il nastro adesivo. C’era il vestito schiacciato da una parte, il costume di Babbo Natale completo di copri stivali, cintura, cappello, giacca e pantaloni con tasche nel morbido tessuto vellutato. La barba era stata venduta separatamente. Taglia unica, XL. Lo indossava suo padre quando lasciava i pacchi dono fuori della porta, dopo aver suonato il campanello due volte. Alessandro e suo fratello ci credevano che sarebbe arrivato prima di pranzo, intorno a mezzogiorno. E puntualmente, il 25 dicembre, arrivava il papà di tutti.
“Mio caro Babbo Natale”, era scritto nella letterina sotto i piatti di porcellana decorati con i fregi. Il nonno si commuoveva mentre apriva il portafoglio e stirava le banconote da dieci mila lire. Alessandro recitava, i cugini urlavano, gli zii battevano le mani e la nonna portava in tavola i cappelletti in brodo cucinati con la polpa di maiale e il pollo tritato. Quindi la stracciatella con il brodo di carne e la noce moscata, la spezia che Alessandro non aveva mai capito dove si coltivasse. Poi la faraona arrosto, la parmigiana di zucchine e il tacchino farcito. Il torrone Bettacchi e il pandoro Bauli chiudevano il pranzo. Ci si metteva a scartare i regali freneticamente. Le carte argentate e i fiocchi arricciati venivano accatastati sotto il tavolo allungabile.
Dopo trent’anni i nonni non ci sono più. Non c’è più neanche zia Mariella, che pepava la faraona e diceva sempre che bisognava aggiungere il rosmarino e una fettina di pancetta. Alessandro si mette a sedere sul divano della sala. Fuori ha nevicato tutta la notte. Accende la televisione e passa in rassegna i canali. Quella volta lo schermo era in bianco e nero e le partite di calcio si ascoltavano alla radio a transistor. C’era la domenica della settimana di Natale che vedeva impegnate le squadre del cuore: la Juventus del cugino Massimo e il Bologna di nonno Ernesto. La Lazio di Alessandro, dopo l’euforia dell’anno dello scudetto, nel 1974, aveva smarrito le prime posizioni della classifica e lottava per non retrocedere. Enrico Ameri e Sandro Ciotti trasmettevano la radiocronaca delle sfide più importanti della giornata su “Tutto il calcio minuto per minuto”, mentre la sera Paolo Valenti conduceva “Novantesimo minuto”, dove scorrevano le prime immagini della domenica allo stadio. La Juventus e il Torino si contendevano gli scudetti, mentre le squadre milanesi arrancavano. “Novantesimo Minuto” era lo spazio più atteso di “Domenica in”, il programma condotto su Rai Uno da Corrado, che aveva il suo epilogo, durante il periodo natalizio, con la Lotteria Italia. Era una festa, sempre. Dopo le partite il mercante in fiera, la briscola e il tressette. Nonno Ernesto fingeva di sbagliare, giocando le carte, per far vincere i nipoti. Di notte si dormiva poco e si parlava sotto voce, nella camera da letto.[...]
 



sabato 30 luglio 2016

Claudia Zironi


Fantasmi, spettri, schermi, avatar e altri sogni
prefazione di Francesca Del Moro,
postfazione di Vladimir D’Amora
Il libro è edito nella collana “Poesia oggi”
di Marco Saya Edizioni, Milano, 2016



Dalla prefazione di  Francesca Del Moro
“Nella foto di copertina, fotogramma del film Poltergeist di Tobe Hooper, una bambina è inginocchiata davanti a un apparecchio d’altri tempi, in una posizione che suggerisce fascinazione e al tempo stesso adorazione. Due sentimenti che attraversano tutto il libro, in cui al televisore, divenuto via via più grande e piatto, si affiancano i frutti di più recenti evoluzioni tecnologiche: computer, Tutti strumenti funzionali a mantenerci in contatto con il nostro essere virtuale, micro-innesti bionici che,infilati nella nostra mente, alimentano un mondo popolato da fantasmi e spettri.”



i fantasmi si riempiono di frutti le mani
sorella, respirano come i vivi, soffrono
camminandoci accanto dal confine
di quella dimensione della mente. muoiono
in mare e nei campi, sono come lampi
bagliori velocissimi attraverso la stanza
neri. poi gli schermi si spengono
e i latrati nella notte. ora dormi.


FANTASMI: LA POESIA
E se la poesia si reggesse sull’equivoco di vite sospese?
Che solo da un certo bilico di confini potesse venire il sublime come errore.
Se fosse più vicina alla morte di un nido abbandonato nel fango di ottobre o
di una spuma d’onda; un’incomprensione della convenzionale accettazione di
un transito, istintività deviata di propagazione, difetto di visuale come un
occhio dal nervo malato che sfochi i primi piani, un orecchio sensibile solo agli
acufeni tanto da confondere nel cervello la percezione del reale.
Se i poeti per ciò si riconoscessero senza potersi accoppiare, incapaci di
lasciarsi in eredità, muli sterili assediati di visioni, separati: se fosse un difetto
dell’amore, come un gene zoppo, una mancanza partorita, quest’arte?
Se fosse sintomo di un fantasma nella mente?


FANTASMI: L’AMANTE
Amore mio se tu esistessi vedremmo lontano ognuno con i propri occhi, ci
risuonerebbe dentro il mare, a te quieto, a me in tempesta, non avremmo
bisogno di conoscerci per stare vicini, non sogneremmo mondi di plastica per
fingerci vivi, non moriremmo in una caverna, faremmo viaggi lontani in posti
diversi, scriveremmo solo di luce e di acqua, non avremmo bisogno di
propagazione, saremmo api e stelle marine, sarebbe il tempo ad aspettarci,
non saremmo nulla se non soli, se tu esistessi amore.


padri nostri che state in terra
non vi perdoneremo il seme
non avremo compassione
che di noi stessi, per gli specchi
che a vostra immagine
avete generato. dalla terra
apprenderemo un abbraccio
quando dei vermi sapremo
la regola dell’esistenza.
dateci oggi un gesto insano
a chi è terra nel silenzio
mentre tutto ride, intorno.


con la mano nella tua mano
contavamo le formiche
risalire un tronco morto
in un tempo lunghissimo
che non abbiamo avuto





Con Fantasmi, spettri, schermi, avatar e altri sogni, suo terzo lavoro nel giro di
poco più di quattro anni, Claudia Zironi compie un ulteriore passo in avanti
nella costruzione di una poetica personale quanto autentica.
L’idea di poesia che presenta nelle sedici sezioni in cui è diviso il libro, mostra
infatti una complessità e una stratificazione del pensiero in piena continuità
con i titoli che lo hanno preceduto, ma anche una spinta in avanti per quanto
riguarda caratura e maturità del dettato.
Se in Fantasmi, spettri, schermi, avatar e altri sogni risiede ancora la messa in
scena, sempre aperta, schietta, priva di infingimenti, di un desiderio che è sì
erotico, ma anche di relazione alta, di congiungimento attraverso il pensiero
della persona amata eppure fantasmatica, ecco appunto presentarsi con
maggior forza e compiutezza rispetto a Eros e polis una riflessione sulla
perdita totale di fisicità per quanto riguarda l’esistenza umana. Un venir meno
che è e resta tragico patrimonio dei nostri tempi, quindi non ancora
sperimentato appieno in tutta la sua potenza, quindi ancora da pensare, da
ragionare.
Zironi guarda al distacco che si crea fra corpo e corpo, fra il bisogno di
contatto e il nascondersi dietro quelli che Francesca Del Moro nella sua
prefazione stigmatizza come “i frutti di più recenti evoluzioni tecnologiche:
computer, tablet e smartphone”. Ma in questo distacco intravede l’elemento
del desiderio che ancora muove l’uomo, cioè il voler appartenere alla materia,
non all’effimero. Perciò l’autrice afferma di trattare “lo schermo, questo
simbolo della nostra epoca, che pilota e annienta la fantasia, che si sostituisce
alla volontà e ai valori, che sta mutando molto più profondamente di quanto ci
si renda conto i nostri comportamenti sociali e artistici e sentimentali, come
oggetto nella sua funzione specifica, ma anche come prisma che filtra e
deforma la realtà: amore, eros, rapporto umano”.
Libro ricco di rimandi e citazioni, Fantasmi, spettri, schermi, avatar e altri
sogni non si ferma solo a questo specifico: nel suo essere estremamente
composito quanto pluristratificato nelle indicazioni di senso, nello sviluppo dei
temi, ha l’ambizione di abbracciare un campo vastissimo di tematiche
(“L’amore e la morte, la carne e il linguaggio, l’osservazione della
fenomenologia fisica e il suo compenetrarsi con la metafisica, i tributi alla
filosofia, all’astronomia e alla fisica, la negazione della verità e della storia,
echeggiano contro le pareti della caverna platonica in cerca di un punto di
rottura che le mandi in frantumi” conferma l’autrice) come ad abbracciare il
mondo, che sempre più sembra voler sfuggire a un giusto desiderio di
matericità, di fisicità.

domenica 1 giugno 2014

La barba d'oro di Godot

Titolo: La barba d’oro di Godot. Profili di poeti e artisti del nostro tempo
Autore: Augusto Benemeglio
Editore: Edizioni DivinaFollia
Collana: Fuorionda
Prezzo: € 15.00
Data di Pubblicazione: 2014
ISBN: 8898486286
ISBN-13: 9788898486281
Pagine: 246
Reparto: Studi letterari > Storia e critica della letteratura > Studi letterari di carattere generale

Anna Maria Curci legge Augusto Benemeglio



Augusto Benemeglio, La barba d’oro di Godot
Villaggio Cultura – Pentatonic, 1° giugno 2014
Quando penso ad Augusto Benemeglio la prima associazione che mi viene alla mente è una scena dal teatro nel film Chiedimi se sono felice. I tre amici Aldo, Giovanni e Giacomo, tra battute, disavventure, comici malintesi e ‘trentini’ notturni a basket, tentano di allestire una versione propria, senz’altro originalissima, di Cyrano de Bergerac. Ecco, la scena del saluto iniziale tra Cristiano e Cyrano nella messinscena che  ben rende l’atmosfera – talvolta guascona, sempre piena di vita e attenta al dettaglio che ad altri sfugge - di serissimo gioco del teatro, ché dietro l’apparente caos, l’allegra o torva confusione, c’è un pensiero che tende al sistema e che è nutrito e reso consistente e durevole da passione e ricerca.  Qui al Villaggio Cultura–Pentatonic abbiamo avuto modo di conoscere Augusto Benemeglio come autore di originali – che lui ama chiamare “recital” – ricostruzioni delle vicende artistiche e biografiche di Federico Fellini,  Rocco Scotellaro,  Fabrizio De Andrè, come animatore dell’incontro sul brigantaggio nel Meridione; alcuni di noi hanno avuto modo di assistere, o perfino di partecipare, alle rappresentazioni del gruppo da lui creato presso il Teatro “Don Mario Torregrossa”. La passione che Augusto profonde in tutto quello che fa e organizza è grande e contagiosa.
Ora, in questo volume che presentiamo oggi, La  barba d’oro di Godot sono raccolti alcuni esempi della sua attività instancabile di lettore e di affabulatore. È giusto dunque, innanzitutto, introdurre alcuni dati della sua biografia, come ce li riporta Abele Longo nella sua prefazione a La barba d’oro di Godot.
«Conosciuto anche con il nome d’arte di Augusto Buono Libero, Augusto Benemeglio nasce a San Buono (Chieti) il 22 agosto 1943. Presto orfano di madre, vivrà a Roma con la nonna paterna mentre il padre, e a cui dedicherà il poemetto Ultimo tramonto in Sudafrica (2008), si trasferisce in Sudafrica. Si arruola in Marina e nel 1977 sbarca in quella che sarà la sua terra elettiva, il Salento, a Gallipoli, città di molti dei suoi libri, come il romanzo L’isola e il leone (1984) e la favola L’isola della luce (1992), oltre che di lavori teatrali come La Santina di Gallipoli (1994).
Lavora come giornalista, per diverse riviste e per una televisione locale, e mette su una compagnia teatrale di attori non professionisti con la quale girerà in lungo e in largo la penisola salentina. Una volta in pensione, ritrova le sue origini romane trasferendosi ad Acilia, dove continua la sua fervida attività di scrittore e riprende la passione per il teatro, fondando il Gruppo Recital 2010. Un gruppo, come dice Augusto, nato dalla “fusione casuale e arbitraria di spregiatori della quiete, del fratello fuoco e della sorella televisione,” di gente assolutamente fuori “dalla mischia degli intellettuali”. Un gruppo che rispecchia lo spirito del suo fondatore, fuori dagli schemi, allergico alle correnti e alle etichette, profondo conoscitore delle debolezze umane e del ruolo consolatorio, e perciò prezioso, dell’arte.»
Il tratto, inconfondibile e anticonformista, che accompagna tutte le manifestazioni pubbliche e, per noi che proviamo riconoscenza per la sua amicizia, private di Augusto Benemeglio, si ritrova negli scritti raccolti qui. Mi piace metterne in evidenza tre aspetti: lo sguardo del lettore e affabulatore, che naviga con provata esperienza nelle acque comuni e altrui, si immerge, affonda le mani in materie affini e oscure; l’attenzione ai luoghi; il collegamento, agile e argomentato, alle grandi voci della letteratura in particolare e dell’arte in generale.
Augusto Benemeglio sa volgere uno sguardo attento ed esperto, si è detto, all’altro e all’altrui materia dei sogni. Non è uno sguardo distaccato, non disdegna l’empatia, ma è pur sempre lucido e sa rendere con enunciati chiari e significati la sostanza di quei sogni,  le caratteristiche di ciascuna scrittura. Scrive, ad esempio, di Narda Fattori:  «si dimostra una che non cerca consolazione e lacrime dalla poesia, ma piuttosto il destino della verità, per quanto dura e spietata possa essere. È un tipo che vuole andare avanti, approfondire, bruciarsi in questo gioco che diventa vita. Predilige tutto ciò che si fende, si spezza, che è rigido, duro, “virile”, pur nella sua stupenda femminilità»; e, ancora, di Pasquale Vitagliano, in un passaggio che ben mostra il talento di Augusto nell’evidenziare gli ‘universali’ della poesia: «E tuttavia rimane il mito che alla fine ci salva. È il mito della scrittura, l’utopia. Un sentiero difficile e doloroso da percorrere, ma che Pasquale ha voluto intraprendere con una certa determinazione. È un requiem senza tenebre, dove il cuore si fa cenere»; della poesia di Lorenzo Poggi afferma: «Una poesia che sembra presa dal Qoelet, il libro della Bibbia più enigmatico (e pericoloso) che ci sia. Mi ricorda l’ultima voce di un uomo che con la sua tristezza insanguinò il vento. E allora tutti gli angeli persero la vita. Fuorché uno, ferito, con le ali mozze. E quell’angelo divenne il poeta. Anche Lorenzo Poggi è un poeta dei nostri tempi, che vive il presente perpetuo nelle sue ossa e nell’anima, in mare aperto».
Degli autori presi in esame viene sempre sottolineato il legame con i luoghi d’origine e di adozione. Nel caso di Annamaria Ferramosca, ad esempio, è la capitale, terra d’adozione a rivestire un ruolo di primo piano: «Ma Annamaria è cittadina del mondo, soprattutto cittadina dell’Urbe: “è in Roma babelica/ che vivo immersa nella calca” e viaggia spesso in Metropolitana, che ricorda un po’ la Circolare rossa cardarelliana degli anni Quaranta. Anche lei guarda visi di uomini e donne, “Tra foglie e nuvole, a tratti / Eur, Magliana, San Paolo, mi dileguate /  quest’aria nera di gallerie romane, / siete ridenti, oggi, in abiti e parole…”».
Con Ivano Mugnaini, invece, è la nativa Viareggio a far sentire la propria voce: «Mugnaini è uno di Viareggio, che conosce bene l’arte delle maschere e delle sfilate dei carri carnascialeschi sul lungomare, il galoppo dell’onda sulla battigia invernale, coi suoi ossi di seppia, le statue scolpite dal vento e la danza del mare; uno che è “ancora” toscano e conosce l’arte della Lingua Italiana e della Parola, che è “l’unico strumento che media mondo e sentimento e, allora deve essere perfetta”. Se saliamo un poco più su, siamo già in altre terre, in culture diverse, di frontiera».
Infine gli accostamenti ai grandi della letteratura e dell’arte, in una visione d’insieme, dal respiro ampio e dalla vista acuta, dalla conoscenza profonda e dall’udito sensibile a rime, ritmi e timbri, dall’eloquio privo di falsi timori e, anche in questo, controcorrente. Non manca, in queste associazioni, il gesto teatrale. Eppure esso è sempre funzionale all’argomentazione, non è mai istrionica boutade, mai fine a se stesso.
Augusto Benemeglio legge insieme Doris Emilia Bragagnini ed Emily Dickinson: «Doris non cerca di abbellire se stessa, né adornare la propria spiritualità, si descrive com’è, come farebbe una Emily Dickinson dei nostri tempi […], e che tuttavia, pur rimanendo tappata nella sua stanza, senza voler incontrare nessuno, farebbe uso anche lei del computer, e magari si farebbe un blog tutto suo, come Doris, e cercherebbe dei contatti con altre persone sensibili, con i frequentatori di quel nulla infinito e misterioso che è la poesia».
Per Dominique Villa, che accosta a Mallarmé e a Lautréamont, Augusto Benemeglio scrive: A Dominique non avevo detto nulla di un vago accostamento con Novalis (il poeta è un puro acciaio duro come la selce), il poeta che flirta costantemente con la morte […] Questo precipitare mi rimanda a tanti poeti […]. Da Hölderlin, vagabondo per le strade del mondo, o chiuso come un pazzo […] nella torre sul fiume, a Baudelaire paralizzato, cieco da un occhio, che articola a fatica le labbra per dire con un filo di voce: “Bonjour Monsieur”; da Verlaine, tra i rifiuti di Parigi, che contende cicche ai barboni, alla Cvetaeva, coi capelli incollati dal sudore e dal fango, morta di fatica e di disperazione, che sale su una seggiola, getta una corda sopra una trave e s’impicca… a Esenin, che va a morire, senza più identità, né contadino, né borghese, in un bagno pubblico di Mosca, a Pavese, con il suo vizio assurdo[…]. E la poetessa sembra che sia lì, presente e lo descriva chirurgicamente prima del gesto ferale».